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Tubercolosi pericolosa. Un reportage dal pù grande ospedale del Vietnam.

Una stanza, 20 letti. Un letto, 3 o 4 pazienti. Uomini e donne insieme, non conta. Si fa a turni o si condivide il lenzuolo, magari stando seduti in due di fianco ad un moribondo.
Molti balconi sono il pavimento di una seconda stanza improvvisata, i degenti seduti per terra tra scodelle, stracci, bicchieri e chissa’ cos’altro. Un po’ come lo si fa per le strade sui marciapiedi-caffe’, ma senza divertirsi. Le famiglie portano un materasso e quando possono il cibo da casa, meglio di quello che offre l’ospedale. Le ringhiere sembrano sbarre di prigione a vederle da fuori.
Costruito nel 1908, quando c’erano i Francesi, ampliato negli anni sessanta con gli Americani e cresciuto a dismisura in altezza, poi ingrigito, irrigidito e cristallizzato dai sovietici e dal socialismo nei primi anni ottanta, il Cho-Ray e’ l’ospedale piu’ grande di tutto il centro-sud Vietnam. E’ uno dei due maggiori poli pubblici di una citta’, Ho Chi Minh, con piu’ di otto milioni di abitanti e in rapidissima crescita economica e demografica. Sembra un’enorme condominio di periferia, con la facciata grigia di balconi sporchi che si affaccia sopra un ingresso rinnovato e il traffico caotico. Tutto intorno all’edificio principale, i bassi padiglioni arancioni e qualche curato angolo di giardino esotico ricordano l’amministrazione francese dell’Indocina.
Un’infermiera prende circa 100 dollari al mese. Un medico tra i 200 e i 300. I dottori possono arrotondare a casa sottobanco. Chi vuole, e sono molti, accetta la mazzetta da chi puo’ permettersi di pagare o da chi non puo’ permettersi la perdita di un familiare.

Le 6 sono passate. Ci affrettiamo, io e R., verso uno dei padiglioni interni tra alcune ambulanze che non sembrano vere, un moribondo, solo, abbandonato davanti la porta della rianimazione e accampati gruppetti di persone che se ne stanno su delle stuoie a vivacchiare.
Ci sono dei lavori: con soldi americani ammoderneranno una struttura senza scale o rampe o ascensori, ma solo sedie. Non c’e’ lo spazio per farci passare una sedia a rotelle, figurarsi una barella. I letti mancano, ma di sedie quante ne volete. Sembra una vecchia sala cinematografica. Le infermiere sono carine, ben curate, professionali, sorridenti come tutti i Vietnamiti. Le loro pulite uniforni bianche e blu, con dei copricapi che ricordano i film americani degli anni cinquanta, sono l’unica cosa che suggerisce che questo e’ un ospedale.
Tra le sedie, saliamo al terzo piano: in ospedale veramente. C’e’ una stanza dove il personale puo’ cambiarsi, lettini per le visite, alcuni computer un po’ vecchi e uno appena acquistato. Soprattutto ci sono i macchinari per le analisi: 2 centrifughe, barattoli, piastrine, microscopi vecchi e nuovi. Presto arriveranno altri macchinari acquistati in parte con fondi pubblici in parte con soldi canadesi o australiani o statunitensi. Il pavimento e’ completo a meta’, ma lo finiranno in un paio di settimane, forse un mese. Su un microscopio Olympus la scritta a grandi caratteri, quasi piu’ grossa del microscopio stesso, dice ‘COOPERATION Vitenam Japan 1994’. Vecchio, mi dice R., ma meglio questo che quello nuovo.

main gate

Ingresso principale dell'ospedale Cho Ray di Ho Chi Minh City. Per numero di malati è il più grande di tutto il Vietnam.

Ci cambiamo. Mi da’ un camice, una mascherina e un paio di guanti in lattice.
Scendiamo giu’ all’aperto dietro il padiglione, dove c’e’ un cortile per un terzo coperto da una tettoia di onduline. In 60-70 mq circa stanno ordinati una 15na di sgabelli, perfettamente equidistanti e allineati in fila per 3. Su di essi sono seduti dei penitenti, tutti rivolti verso lo stesso muro che e’ distante almeno tre metri dalla prima fila. E’ cosi’ per favorire la ventilazione. Sembra un campo di rieducazione alla Pol Pot. Sono tutti intenti a fare maleversi: devono tossire, tossire, sforzarsi, ripetutamente, tossire, e sputare in una provetta la saliva che gli deve uscire dai polmoni. Si battono con un pugno il petto, con l’altra mano reggono un fazzoletto di carta davanti la bocca. Qualcuno sembra penare non poco.
Io e R. giriamo tra di loro stando di lato, mai di fronte. Ho abbastanza protezione? P. ieri mi ha detto di non farmi sputare addosso. La TB: basta un colpo di tosse o un soffio d’aria e sei fregato.
Due infermieri passano tra i penitenti battendogli con piccoli pugni la schiena per stimolarli. Esaminano in controluce le provette: puo’ andare oppure no, e allora bisogna che continuino.
Chi puo’ andare consegna la provetta e se ne va. Tornera’ una seconda e una terza volta. Tre campioni per tre test. Si fa avanti un’altra persona dopo aver ritirato provetta e fazzoletto. Alla fine della storia, verso le 8e30, sarannno in tutto tra 80 e 100 persone.
R. mi mostra la saliva nelle provette. Mi spiega e io mi faccio una cultura sullo sputo dei Vietnamiti. Ho l’impressione di essere un nazi alle prese con esperimenti di genetica.
Alcuni non si coprono la bocca col fazzoletto ed R. li richiama all’ordine, ad una buona abitudine che molti non hanno.
Ci sono signore di 40 anni, vecchi di 60, giovani di 20. Alcune belle ragazze, anche.
R. mi indica una 25enne, bellissima e molto ben vestita. Mi chiedo che ci faccia qui. Lei ha la TB, mi dice R., sicuro, e’ sotto trattamento. Oh man! e alzo gli occhi al cielo. Ride beffardo, R.: now you’re scared, ah? Non rispondo, ma dovrei forse ripensare il mio rapporto con la popolazione.

l'ingresso secondario presso i padiglioni di epoca francese

Ospedale Choray: l'ingresso secondario presso i padiglioni di epoca francese

Mi viene mostrata la stanza dove chi risulta positivo ai test si reca a scadenze regolari per assumere i farmaci. E’ piccolina e affollata, davanti l’ingresso del cortile. Entriamo, la mascherina sempre sulla bocca. Vedo i registri dove firmano e le liste sulle bacheche: letteralmente kg e kg di dosi. Dietro uno sportello c’e’ un medico vietnamita che controlla. Lavora in questo ospedale da 25 anni. Mi dice che alcuni non si curano bene o con regolarita’ ed e’ per questo che i governi che finanziano pretendono una diretta osservazione da parte del personale. Tutto viene registrato e poi spedito loro. Molti di questi dati verranno usati per la ricerca da quegli stessi governi.
Il trattamento per curare la tubercolosi e’ molto pesante, prosegue il dottore, e richiede l’uso di piu’ farmaci contemporaneamente, fino a 5 o 6. Puo’ durare diversi mesi o diversi anni. Non e’ sempre facile trovare la combinazione ideale. Se il trattamento non e’ adeguato la malattia diventa resistente ai farmaci e difficile da curare, se non impossibile.
Io e R. torniamo su’. Mi mostra come avvengono le analisi, mi fa vedere al microscopio cosa e’ la TB, i diversi tipi, in diversi modi. I vetrini vengono poi spediti in un altro laboratorio, il quale li rispedisce all’IOM che poi ancora li rispedisce ad un altro laboratorio all’insaputa del primo. Questo, mi spiega, e’ un double-check per assicurarsi che qualcuno non abbia corrotto qualche infermiere, come avveniva regolarmente 5 anni fa.
Non so neanche io per quale ragione, forse perche’ sono un po’ preoccupato per aver passato un paio d’ore in quel cortile, forse e’ solo curiosita’, mi sottopongo alla puntura cutanea che rivela se si e’ venuti in contatto con la TB. Tra l’ilarita’ generale, dalla quale io non sono immune, un’infermiera mi inietta sotto la pelle quelle che sono proteine che in precedenza sono state separate dal batterio della tubercolosi. La tubercolina forse l’ho gia’ fatta da piccolo. Non so, sono un po’ confuso e molto ignorante in materia. Tra un paio di giorni il mio braccio si potrebbe arrossire. Non succedera’.
R. mi mostra nel database il caso di una donna che va avanti con la cura dal 2002. In quell’anno una grossa campagna di informazione dell’OMS aveva convinto molta gente a recarsi in ospedale. Ha 35 anni, ora, e ha iniziato che aveva la mia eta’. Suo marito e’ gia’ emigrato negli States, ma lei non puo’ salire su un aereo. Le restano altri 5 anni di vita al massimo. R. ha tentato in molti modi, combinando diversi farmaci, cercandone altri anche in Thailandia, che’ in Vietnam non tutti i tipi sono disponibili e costano di piu’. Niente da fare. Il suo e’ un tipo di TB troppo resistente e diventa sempre piu’ forte: la chiamano XDR-TB, Extensively drug-resistant TB.
Ora lei ha detto basta. Ha detto smetto. Vuole lasciare almeno un figlio a suo marito. Lasciare qualcosa di lei, dopo di lei. Nonostante il rischio per il partner e per il bambino stesso. Ma come si puo’? chiedo. Si puo’: R. si copre la bocca con la mano. Come se fosse la cosa piu’ naturale del mondo. Concepire un figlio con la mascherina, senza tenerezze, baci, o che so io…
Fucking dangerous TB! dice lui.

La tubercolosi resta un problema grave in molti paesi. E’ causa di morte. E tutto sommato e’ una morte banale: si tossisce, fino a tossire sangue.
Nel 2002 un terzo della popolazione mondiale era affetta da TB.
Ogni anno circa 8 milioni di persone si ammalano. Ogni anno 2 milioni di persone muoiono, piu’ o meno una ogni 15 secondi. Secondo la OMS il rischio di una “catastrofe umana” e’ verosimile.
La TB e’ la principale causa della morte di donne in eta’ fertile, la prima causa di morte per chi e’ affetto da AIDS.
Il Sud Africa e’ in cima alla classifica per incidenza sulla popolazione; l’India e’ il paese col maggior numero assoluto di malati (1,9 milioni); la Cina, dove la gente ha l’abitudine di sputare anche nelle case, e’ al secondo posto; il Vietnam al 13esimo; in Italia ci sono 3900 casi.
La TB si diffonde piu’ facilmente in luoghi affollati, poco ventilati e carenti di igiene: prigioni, ospedali, rifugi per senzatetto, ma anche una nave o un aereo; trova terreno fertile nelle aree a forte densita’ umana e dunque e’ maggiormente presente nelle zone urbane.
Le piu’ colpite sono Africa e Asia, ma anche nel “nostro” mondo il rischio sopravvive. In Inghilterra una bambina di 15 anni e’ morta per TB poche settimane or sono. L’anno scorso un signore americano affetto da questa malattia ha osato sfidare la legge ed il buon senso prendendo un aereo che lo ha portato in vacanza a Roma. Al suo ritorno negli USA lo hanno isolato per mesi in una stanza e tutti quelli che erano sul suo stesso volo hanno dovuto sottopporsi alla suspance dei test, per fortuna con esito negativo.

Io e R. andiamo via, sono passate le 10 ed e’ il momento di una colazione. Ripassiamo in motorino dinanzi l’ingresso principale. Tutto intorno all’ospedale Cho-Ray sta questa citta’, Miss Saigon, sempre cosi’ brulicante e affollata, congestionata dalla gente indaffarata a fare troppo o non fare nulla, nel grigiore di un caldo mattino metropolitano. Mi sembra quasi fantascienza, ma anche questo e’ il mondo in cui viviamo. E io, nella mia profonda ignoranza, non lo sapevo. Non sapevo di poter imparare da uno sputo.