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L’omicidio di Belaid in Tunisia

Lacrimogeni in Avenue Bourguiba, Tunisi

Lacrimogeni in Avenue Bourguiba, Tunisi

Tunisi – In migliaia hanno partecipato ai funerali di Chokri Belaid, il leader politico dell’opposizione tunisina ucciso nella capitale a colpi di pistola.
Una partecipazione di massa così non si vedeva dai funerali di Habib Bourguiba, amatissimo primo presidente della Tunisia.
La bara è stata trasportata su un mezzo dell’esercito, ma la polizia era praticamente assente nel corteo. Questo a dimostrazione del rinnovato distacco tra forze di polizia alle dipendenze del ministro dell’interno, esponente di Ennahda, e la società tunisina laica che conserva la sua fiducia nelle forze armate.
Familiari e popolo hanno accompagnato il feretro al cimitero di Jallaz, dove violenti scontri erano già iniziati prima dell’arrivo del corteo.
In molti accusano il partito Ennahda di essere dietro l’attentato. Il partito islamista e il suo leader Rashid Ghannouchi sarebbero responsabili di favorire l’islam radicale. La mano che ha colpito a morte Chokri Belaid sarebbe, secondo l’opposizione, quella della Lega per la Protezione della Rivoluzione, gli squadristi legati ad Ennahda che si uniscono alla polizia nella repressione del dissenso e che avevano in passato minacciato lo stesso Belaid.
Per la prima volta in 35 anni è stato dichiarato uno sciopero generale e la Tunisia si è fermata per scendere in piazza nel giorno dell’ultimo saluto a Chokri Belaid.
Manifestazioni sono avvenute in tutto il paese. A Bizerte, nel nord, si sono confrontati dimostranti pro e contro Ennahda. A Tunisi sull’ Avenue Bourguiba, dove ha sede il Ministero dell’Interno e che fu teatro della rivoluzione contro Ben Ali, la polizia ha impedito alla gente di radunarsi. Lanci di lacrimogeni, arresti preventivi condotti con mano dura, pestaggi e bastonate: il paese è tornato per un giorno ai tempi della rivoluzione. (ARo)

Tunisia al voto

Tunisi – “Voto dunque sono”, é scritto nella vignetta della prima sul quotidiano la Presse. Il popolo tunisino alla riconquista della sua libertà e della sua dignità, titola in rosso, richiamando alla passione democratica e al colore nazionale.
“Alle urne cittadini!” é il grido sui giornali, negli sms inviati da partiti, associazioni, organi vari, l’invito tra persone in strada, su facebook.
Il giorno delle prime elezioni democratiche nella storia della Tunisia é infine arrivato. Un giorno lungamente atteso: da quando dopo l’indipendenza del ’56, le aspirazioni di sovranità popolare furono disattese e confiscate dal potere personale mascherato da presidenzialismo.
Oggi i tunisini non solo posano la prima pietra nella costruzione della nuova repubblica, ma in qualche modo portano avanti la rivoluzione che ancora non si é compiuta del tutto e che, molti già temono, potrebbe essere ‘rubata’. Questo almeno fino a quando il nuovo sistema democratico per il quale i tunisini hanno manifestato a gennaio, nove mesi fa, non sarà realtà. Si vedrà dalla prova del voto e dell’operato della assemblea che uscirà dalle urne di oggi. Un’operazione matematica non di facile riuscita, a leggere i numeri: i 217 membri dell’assemblea nazionale costituente saranno scelti tra 11.333 candidati, distribuiti in 1570 liste. Ci sono le liste indipendenti (701), quelle dei singoli partiti (790) e quelle delle coalizioni di partiti (79). Più di cento i partiti registrati e un numero indefinito di candidati indipendenti.
Il compito é quello di costruire un nuovo edificio repubblicano che poggi sulla battaglia per la libertà e la dignità, sul sacrificio di un giovane venditore ambulante che ha letteralmente acceso il fuoco della primavera tunisina e araba.

Che cosa aspetta la Tunisia

Il 23 ottobre, tra circa una settimana, i Tunisini andranno a votare per eleggere l’assemblea costituente. Un voto importantissimo: il primo dopo la cacciata di Ben Ali e famiglia. Il primo voto libero dopo la rivoluzione, dicono in molti. Ma i problemi che la Tunisia affronta dal punto di vista politico e civile sono ancora molti e personalmente ritengo che la rivoluzione si debba ancora compiere. Il voto sarà la vera prova. Vedremo se popolo e classi dirigenti passeranno l’esame dimostrando una maturità che nei miei ripetuti soggiorni a Tunisi non ho ancora visto.
La confusione c’è. Tantissimi partiti, forse troppi visto che sono più di cento. Ma prendiamo questo dato come espressione della libertà conquistata con le proteste del gennaio scorso. Con la voglia pazza che ognu ha di esprimere se stesso ora che finalmente gli é possibile.
Eppure un po’ di timore c’è, non solo di chi da sempre vede nel fondamentalismo musulmano il nemico dell’Occidente. Anche molti tunisini si chiedono che cosa sarà se dovessero vincere i partiti ispirati al radicalismo islamico.
Solo come esempio proviamo a immaginare le giovane tunisine, emancipate tanto da portare la minigonna, come reagirebbero ad una paventata imposizione di una stringente legge coranica? Questa é la domanda, per chi ama giocare sui pronostici.

Liberati prigionieri politici, festa in Bahrein. Ma le proteste vanno avanti.

Manama – E’ il primo segno concreto di dialogo. Circa cento prigionieri politici sono stati rilasciati dalle autorità del Bahrein per incontrare le richieste di quanti chiedono l’introduzione di una vera democrazia nel piccolo regno del golfo. Nella piazza della Perla i manifestanti che la occupano ormai da diversi giorni hanno accolto con grande giubilo i liberati.
“Non lo so! Non so perché mi avevano arrestato”, racconta Ahmed Fairooz, 28 anni. “Ero in un caffè e all’improvviso la polizia è arrivata, ha preso me e altri tre amici. Mi hanno tolto tutti i vestiti e menato. Poi mi hanno bendato e rinchiuso in una cella da solo per… credo una ventina di giorni.” Ahmed ha trascorso sei mesi in carcere, senza conoscere l’accusa. “Quando i giudici incontravano me e altri prigionieri, dicevano che le ferite me l’ero procurate nei tentativi di fuga”, racconta spaesato. Come lui tanti altri, tutti giovanissimi. Alcuni di quelli che giungono alla rotonda della Perla, direttamente dalle prigioni, non hanno neanche sedici anni e hanno passato uno o due anni in carcere. Viene legittimo chiedersi di quali crimini politici si siano mai macchiati, ma nessuno di loro ha una risposta.
E’ stata una grande festa per tutta la notte e il giorno seguente. Gli amici si sono rincontrati, le madri e le sorelle hanno ritrovato l’unità della famiglia tra lacrime di gioia e sollievo.
Il re Hamad al Khalifa sembra disposto a voler dialogare con i manifestanti. Ha così esaudito la prima richiesta. Ma la gente non è intenzionata a levare le tende dalla piazza: “Adesso starò qui in piazza tutti i giorni!”, dice Ahmed.
Come lui tutti gli altri, che chiedono una riforma della costituzione: la trasformazione del Bahrein in una vera monarchia costituzionale. Ma molti si spingono oltre e lo dicono ad alta voce: “Ne abbiamo abbastanza del re. Non possiamo più accettare che la stessa famiglia sia su quella poltrona da duecento anni. E’ ora di cambiare!”.
Hanno costruito un monumento, un simbolo del loro pensiero. E’ un trono che traballa, sporco di sangue e con un fucile giocattolo appeso. Sotto c’è uno striscione con i ritratti dei rais che quella poltrona non la mollano, se non quando il popolo lo vuole: Ben Ali di Tunisia, Mubarak d’Egitto, re Hamad di Bahrein, Saleh di Yemen, Gheddafi di Libia, re Abdullah di Giordania. Tra le risa di scherno prendono a calci le loro foto. Un grande cartello dice: “Un re che uccide il suo popolo non è degno di essere re”.
“La gente vuole cambiare il sistema”, dice Husain Al Sabbagh, giovane giornalista del quotidiano Al Ayam, “ma i paesi vicini hanno paura. L’Arabia Saudita non lo consentirà perché se il Bahrein dovesse davvero diventare una democrazia, poi toccherebbe anche a loro”. Forse non ha tutti i torti. Il Bahrein è il primo paese nel golfo a seguire l’esempio di Tunisia e Egitto, e la sommossa qui deve aver spaventato anche gli altri. Tanto che persino il Re Saudita ha annunciato un aumento del 15% dei salari dei lavoratori pubblici e maggiori benefici sociali alla popolazione. Il re del Bahrein si era spinto oltre, regalando circa duemila euro a ogni famiglia, appena il giorno prima di mandare l’esercito a sparare sulla folla.
Ma qui sono le pressioni internazionali a mantenere il coperchio sulla pentola che bolle. Nessuno vuole un golfo destabilizzato oltre misura. L’America, che qui a Manama mantiene la base della Quinta Flotta, sicuramente non lo vuole. Il Presidente Obama ha placato la reazione brutale del regime del Bahrein e il regime del Bahrein ha tolto dall’imbarazzo il Segretario di Stato Hillary Clinton che si era affrettata a condannare le violenze in Iran, ma un po’ meno quelle nei paesi arabi alleati. La posta in gioco è troppo alta, visto anche l’interesse dell’Iran per quest’isola che un tempo era parte delle Persia. (ARo)

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Bahrein. Le vittime che dividono il paese

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Malkiya – In migliaia hanno partecipato ai funerali di Redha Mohamed, 32 anni, nella città di Malkiya, 20 km dalla capitale del Bahrein. Morto in ospedale dopo 4 giorni di coma, Redha era stato ferito dalle forze di polizia mentre manifestava pacificamente in Piazza della Perla, a Manama.
E’ l’ottava vittima ufficiale causata dalla dura e inaspettata repressione delle manifestazioni per la democrazia in Bahrein. Più di 200 il numero dei feriti. I morti hanno causato se possibile ulteriore risentimento verso la famiglia reale.
I manifestanti chiedono riforme democratiche, una monarchia costituzionale, l’eguaglianza dei diritti per gli sciiti, che rappresentano il 70% del paese, ma che non godono di una vera rappresentanza in parlamento. Il sistema elettorale non è infatti su base demografica e favorisce la minoranza sunnita. La Camera eletta ha inoltre scarsi poteri effettivi e tutte le decisioni rimangono in seno alla famiglia reale, sunnita e di origine saudita. Il Primo Ministro Khalifa al Khalifa, zio del re Hamad al Khalifa, è in carica da quaranta anni. (ARo)

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