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Primavera Araba? Il Bahrain è un’altra storia.

In Bahrain le proteste contro il regime della famiglia regnante Al Khalifa continuano, nell’apparente indifferenza degli Stati Uniti, i quali invece aumenteranno la fornitura di armi al loro piccolo ma vitale alleato del golfo.
E’ una protesta difficile da riportare anche per la stampa internazionale: per fare un esempio chi scrive ottenne un visto per solo 36 ore ad un costo elevatissimo, l’attrezzatura sequestrata all’arrivo, e più di una volta seguito da agenti in borghese e interrogato per strada.

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L’editorialista Nicholas Kristof del New York Times non molla. Era in Bahrain già a Febbraio, quando la repressione culminò persino con l’aiuto dell’esercito dei vicini cugini Sauditi. Ora Kristof ottiene un nuovo visto e ritorna a Manama, capitale dello stato, e documenta le persistenti dimostrazioni di strada, la difficoltà dei giornalisti nel seguirle, la violazione dei diritti umani e soprattutto la colpevole anomalia dell’amministrazione americana: condanna Gheddafi, condanna Assad, ma in Bahrain è un’altra storia.

Le Nazioni Unite criticano la Giunta Birmana: Aung San Suu Kyi, detenzione illegale.

Secondo le Nazione Unite la detenzione della leader dell’opposizione democratica birmana sarebbe illegale perché, oltre a violare i diritti fondamentali universalmente sanciti, violerebbe anche le leggi interne allo stesso stato del Myanmar.

Aung San Suu Kyi in unimmagine del 2002.

Aung San Suu Kyi (destra) in un'immagine del 2002.

Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace nel 1991, ha trascorso fino ad oggi tredici degli ultimi diciannove anni agli arresti domiciliari. Ogni anno la giunta militare al potere in Birmania rinnova la detenzione nonostante le puntuali critiche rivoltegli da quasi l’intera comunità internazionale e dai sostenitori dei diritti umani.
In un documento che il Gruppo di Lavoro sulle Detenzioni Arbitrarie delle Nazioni Unite ha inviato direttamente al governo birmano chiaramente si dice che “l’ultimo provvedimento di rinnovo (2008) che pone agli arresti domiciliari la signora Suu Kyi viola non solo la legge internazionale, ma anche le leggi interne del Myanmar”. Secondo il gruppo di lavoro, che fa parte del Consiglio sui Diritti Umani dell’ONU, Suu Kyi sarebbe agli arresti stante la legge cosiddetta “per la Protezione dello Stato” del Myanmar, legge del 1975 che prevede una ulteriore estensione del periodo detentivo fino ad un massimo di cinque anni. Il periodo dei cinque anni sarebbe, secondo l’ONU, finito nel maggio 2008, e quindi la attuale prigionia non giustificabile secondo la legge che la giunta invoca.
Sebbene le Nazioni Unite cerchino da anni di mediare sulla vicenda dei diritti umani in Myanmar, invero con scarsi successi, questa è la prima volta che un suo organo critica apertamente la dirigenza di un paese membro e considerata, nonostante tutto, legittima. Per questo il documento, critico anche sul fatto che la Suu Kyi rappresenti una minaccia per la sicurezza dello stato, assume un alto valore simbolico, se non altro. Anche se probabilmente non porterà alla scarcerazione della premio Nobel, fornirà un nuovo strumento legale per i sostenitori dei diritti civili in Birmania.
La Birmania resta sotto la dittatura di un consiglio di generali dal 1962. Nuove elezioni sono in programma per il prossimo anno, e secondo la leadership del paese segneranno il passaggio alla democrazia. Per gli attivisti e i critici del regime sanciranno solo il potere già in mano ai dittatori: il risultato si annuncia scontato grazie ad una costituzione favorevole alla giunta. Modificata nel maggio dello  scorso anno attraverso un referendum plebiscitario nel quale la popolazione fu costretta a votare e in alcuni casi, si disse, i militari stessi si sostituirono ai civili nel momento del voto.

Aung San Suu Kyi è leader della Lega Nazionale per la Democrazia, il principale movimento di opposizione al regime dei generali che nelle ultime elezioni libere del 1990 conquistò la maggioranza, mai riconosciuta dalla giunta.