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Tunisia al voto

Tunisi – “Voto dunque sono”, é scritto nella vignetta della prima sul quotidiano la Presse. Il popolo tunisino alla riconquista della sua libertà e della sua dignità, titola in rosso, richiamando alla passione democratica e al colore nazionale.
“Alle urne cittadini!” é il grido sui giornali, negli sms inviati da partiti, associazioni, organi vari, l’invito tra persone in strada, su facebook.
Il giorno delle prime elezioni democratiche nella storia della Tunisia é infine arrivato. Un giorno lungamente atteso: da quando dopo l’indipendenza del ’56, le aspirazioni di sovranità popolare furono disattese e confiscate dal potere personale mascherato da presidenzialismo.
Oggi i tunisini non solo posano la prima pietra nella costruzione della nuova repubblica, ma in qualche modo portano avanti la rivoluzione che ancora non si é compiuta del tutto e che, molti già temono, potrebbe essere ‘rubata’. Questo almeno fino a quando il nuovo sistema democratico per il quale i tunisini hanno manifestato a gennaio, nove mesi fa, non sarà realtà. Si vedrà dalla prova del voto e dell’operato della assemblea che uscirà dalle urne di oggi. Un’operazione matematica non di facile riuscita, a leggere i numeri: i 217 membri dell’assemblea nazionale costituente saranno scelti tra 11.333 candidati, distribuiti in 1570 liste. Ci sono le liste indipendenti (701), quelle dei singoli partiti (790) e quelle delle coalizioni di partiti (79). Più di cento i partiti registrati e un numero indefinito di candidati indipendenti.
Il compito é quello di costruire un nuovo edificio repubblicano che poggi sulla battaglia per la libertà e la dignità, sul sacrificio di un giovane venditore ambulante che ha letteralmente acceso il fuoco della primavera tunisina e araba.

Liberati prigionieri politici, festa in Bahrein. Ma le proteste vanno avanti.

Manama – E’ il primo segno concreto di dialogo. Circa cento prigionieri politici sono stati rilasciati dalle autorità del Bahrein per incontrare le richieste di quanti chiedono l’introduzione di una vera democrazia nel piccolo regno del golfo. Nella piazza della Perla i manifestanti che la occupano ormai da diversi giorni hanno accolto con grande giubilo i liberati.
“Non lo so! Non so perché mi avevano arrestato”, racconta Ahmed Fairooz, 28 anni. “Ero in un caffè e all’improvviso la polizia è arrivata, ha preso me e altri tre amici. Mi hanno tolto tutti i vestiti e menato. Poi mi hanno bendato e rinchiuso in una cella da solo per… credo una ventina di giorni.” Ahmed ha trascorso sei mesi in carcere, senza conoscere l’accusa. “Quando i giudici incontravano me e altri prigionieri, dicevano che le ferite me l’ero procurate nei tentativi di fuga”, racconta spaesato. Come lui tanti altri, tutti giovanissimi. Alcuni di quelli che giungono alla rotonda della Perla, direttamente dalle prigioni, non hanno neanche sedici anni e hanno passato uno o due anni in carcere. Viene legittimo chiedersi di quali crimini politici si siano mai macchiati, ma nessuno di loro ha una risposta.
E’ stata una grande festa per tutta la notte e il giorno seguente. Gli amici si sono rincontrati, le madri e le sorelle hanno ritrovato l’unità della famiglia tra lacrime di gioia e sollievo.
Il re Hamad al Khalifa sembra disposto a voler dialogare con i manifestanti. Ha così esaudito la prima richiesta. Ma la gente non è intenzionata a levare le tende dalla piazza: “Adesso starò qui in piazza tutti i giorni!”, dice Ahmed.
Come lui tutti gli altri, che chiedono una riforma della costituzione: la trasformazione del Bahrein in una vera monarchia costituzionale. Ma molti si spingono oltre e lo dicono ad alta voce: “Ne abbiamo abbastanza del re. Non possiamo più accettare che la stessa famiglia sia su quella poltrona da duecento anni. E’ ora di cambiare!”.
Hanno costruito un monumento, un simbolo del loro pensiero. E’ un trono che traballa, sporco di sangue e con un fucile giocattolo appeso. Sotto c’è uno striscione con i ritratti dei rais che quella poltrona non la mollano, se non quando il popolo lo vuole: Ben Ali di Tunisia, Mubarak d’Egitto, re Hamad di Bahrein, Saleh di Yemen, Gheddafi di Libia, re Abdullah di Giordania. Tra le risa di scherno prendono a calci le loro foto. Un grande cartello dice: “Un re che uccide il suo popolo non è degno di essere re”.
“La gente vuole cambiare il sistema”, dice Husain Al Sabbagh, giovane giornalista del quotidiano Al Ayam, “ma i paesi vicini hanno paura. L’Arabia Saudita non lo consentirà perché se il Bahrein dovesse davvero diventare una democrazia, poi toccherebbe anche a loro”. Forse non ha tutti i torti. Il Bahrein è il primo paese nel golfo a seguire l’esempio di Tunisia e Egitto, e la sommossa qui deve aver spaventato anche gli altri. Tanto che persino il Re Saudita ha annunciato un aumento del 15% dei salari dei lavoratori pubblici e maggiori benefici sociali alla popolazione. Il re del Bahrein si era spinto oltre, regalando circa duemila euro a ogni famiglia, appena il giorno prima di mandare l’esercito a sparare sulla folla.
Ma qui sono le pressioni internazionali a mantenere il coperchio sulla pentola che bolle. Nessuno vuole un golfo destabilizzato oltre misura. L’America, che qui a Manama mantiene la base della Quinta Flotta, sicuramente non lo vuole. Il Presidente Obama ha placato la reazione brutale del regime del Bahrein e il regime del Bahrein ha tolto dall’imbarazzo il Segretario di Stato Hillary Clinton che si era affrettata a condannare le violenze in Iran, ma un po’ meno quelle nei paesi arabi alleati. La posta in gioco è troppo alta, visto anche l’interesse dell’Iran per quest’isola che un tempo era parte delle Persia. (ARo)

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Le Nazioni Unite criticano la Giunta Birmana: Aung San Suu Kyi, detenzione illegale.

Secondo le Nazione Unite la detenzione della leader dell’opposizione democratica birmana sarebbe illegale perché, oltre a violare i diritti fondamentali universalmente sanciti, violerebbe anche le leggi interne allo stesso stato del Myanmar.

Aung San Suu Kyi in unimmagine del 2002.

Aung San Suu Kyi (destra) in un'immagine del 2002.

Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace nel 1991, ha trascorso fino ad oggi tredici degli ultimi diciannove anni agli arresti domiciliari. Ogni anno la giunta militare al potere in Birmania rinnova la detenzione nonostante le puntuali critiche rivoltegli da quasi l’intera comunità internazionale e dai sostenitori dei diritti umani.
In un documento che il Gruppo di Lavoro sulle Detenzioni Arbitrarie delle Nazioni Unite ha inviato direttamente al governo birmano chiaramente si dice che “l’ultimo provvedimento di rinnovo (2008) che pone agli arresti domiciliari la signora Suu Kyi viola non solo la legge internazionale, ma anche le leggi interne del Myanmar”. Secondo il gruppo di lavoro, che fa parte del Consiglio sui Diritti Umani dell’ONU, Suu Kyi sarebbe agli arresti stante la legge cosiddetta “per la Protezione dello Stato” del Myanmar, legge del 1975 che prevede una ulteriore estensione del periodo detentivo fino ad un massimo di cinque anni. Il periodo dei cinque anni sarebbe, secondo l’ONU, finito nel maggio 2008, e quindi la attuale prigionia non giustificabile secondo la legge che la giunta invoca.
Sebbene le Nazioni Unite cerchino da anni di mediare sulla vicenda dei diritti umani in Myanmar, invero con scarsi successi, questa è la prima volta che un suo organo critica apertamente la dirigenza di un paese membro e considerata, nonostante tutto, legittima. Per questo il documento, critico anche sul fatto che la Suu Kyi rappresenti una minaccia per la sicurezza dello stato, assume un alto valore simbolico, se non altro. Anche se probabilmente non porterà alla scarcerazione della premio Nobel, fornirà un nuovo strumento legale per i sostenitori dei diritti civili in Birmania.
La Birmania resta sotto la dittatura di un consiglio di generali dal 1962. Nuove elezioni sono in programma per il prossimo anno, e secondo la leadership del paese segneranno il passaggio alla democrazia. Per gli attivisti e i critici del regime sanciranno solo il potere già in mano ai dittatori: il risultato si annuncia scontato grazie ad una costituzione favorevole alla giunta. Modificata nel maggio dello  scorso anno attraverso un referendum plebiscitario nel quale la popolazione fu costretta a votare e in alcuni casi, si disse, i militari stessi si sostituirono ai civili nel momento del voto.

Aung San Suu Kyi è leader della Lega Nazionale per la Democrazia, il principale movimento di opposizione al regime dei generali che nelle ultime elezioni libere del 1990 conquistò la maggioranza, mai riconosciuta dalla giunta.